Eso Peluzzi Il pittore delle more di Cairo. Figure, luoghi e cose in un respiro d’infinito nei dipinti dal 1912 al 1983

Eso Peluzzi Il pittore delle more di Cairo. Figure, luoghi e cose in un respiro d’infinito nei dipinti dal 1912 al 1983

Palazzo Tovegni, Via Adami 5 – Murazzano (Alta Langa, Cuneo)

Ingresso gratuito

Mostra a cura di Ivana Mulatero
Organizzata da Fondazione Bottari Lattes

Inaugurazione: sabato 7 luglio ore 18.30
Orario mostra: venerdì e sabato 15 – 18; domenica 10-12 e 15-18

Apertura straordinaria sabato 4 agosto dalle 20.30 alle 23.00 in presenza della curatrice Ivana Mulatero.

 

Ritrattista di stampo realista e venatura umanitaria, paesaggista lirico e sensibile, rarefatto e introspettivo nelle sue natura morte, Eso Peluzzi (1894 – 1985), si è mosso tra Liguria e Piemonte, dal secondo decennio del XX secolo fino agli anni Ottanta. A omaggiare la sua poetica e l’ampio ventaglio dei generi pittorici con cui si è confrontato (la figura, il paesaggio, la natura morta) nei dipinti realizzati tra il 1912 e il 1983, è la mostra Eso Peluzzi. Il pittore delle more di Cairo, aperta da sabato 7 luglio a domenica 26 agosto 2018 a Murazzano (Cn), organizzata dalla Fondazione Bottari Lattes, in collaborazione con il Comune di Murazzano, e curata da Ivana Mulatero, storica dell’arte e curatrice del Museo Civico Luigi Mallé di Dronero.

L’esposizione, il cui titolo fa riferimento al paese di nascita di Eso Peluzzi, Cairo Montenotte (Savona), e all’espressione usata dallo scrittore Giovanni Arpino per descriverlo, è allestita presso Palazzo Tovegni di Murazzano (via Adami 5), in Alta Langa, a pochi chilometri da Monchiero d’Alba, paese in cui l’artista ha vissuto e lavorato dalla fine degli anni Quaranta, facendo dell’antico Oratorio dei Disciplinanti il suo studio, ora Casa-museo a lui dedicata.

Eso Peluzzi. Il pittore delle more di Cairo è dedicata al corpus pittorico dell’artista, emblematica figura che ha vissuto nei crocevia geografici e culturali italiani tra la Liguria, il Piemonte e la Lombardia, con frequenti soggiorni formativi nel resto d’Italia e in Europa e con inviti alle Biennali Internazionali di Venezia e alle Quadriennali romane e torinesi, alle mostre del Museum of Art di Baltimora e al Jeu de Paume di Parigi.

«In questa esposizione che valorizza la fecondità espressiva di Peluzzi, che amava definirsi pittore delle cose semplici che fanno grande il mondo – spiega la curatrice della mostra Ivana Mulatero – si vuole evadere dal mito discreto di pittore delle Langhe, che per molti decenni ha connotato in maniera univoca la sua opera, provando a rintracciare le vicinanze, come anche le distanze, dalle molte avanguardie. Giova stare sul filo degli scambi professionali con i futuristi Farfa e Fillia, o ricordare l’amicizia fraterna con lo scultore Arturo Martini, senza perdere di vista che Peluzzi è stato conteso da galleristi del calibro di Pier Maria Bardi, compagno di affabulazioni degli scrittori Mario Soldati e Gina Lagorio, sostenuto dai critici d’arte Alberto Sartoris e Mario De Micheli, ammirato dai musicisti Uto Ughi e Salvatore Accardo e, non per ultimo, la sua casa accoglieva Sandro Pertini, settimo Presidente della Repubblica Italiana.

Dalle composizioni di figura vicine alla retorica del Novecento, al paesaggio di più personale respiro immerso negli umori della pittura francesizzante, dai disegni dalle linee onduleggianti tra Previati e Bistolfi, tra Medardo Rosso e Morbelli, fino ai quadri da studio con umili oggetti che raggiungono una metafisica rarefazione spaziale. I generi artistici, versanti molteplici nei quali si consuma l’esperienza di Peluzzi, rivestono il significato non meramente funzionale alle committenze o alle esigenze personali di indagine del mestiere, ma hanno più in profondità il valore di enunciare in modo problematico le scelte compiute in prossimità di una confluenza tra le soluzioni formali, il ricorso a strumenti e tecniche espressive tratte dalla tradizione e dalla contemporaneità, con le atmosfere di ricerca che hanno caratterizzato la storia dell’arte del Novecento».

Prima dell’inaugurazione della mostra, dalle ore 10.30 alle ore 17 di sabato 7 luglio saranno aperte al pubblico le case-museo di Eso Peluzzi e del nipote Claudio Bonichi nel borgo antico di Monchiero, il paese che i due artisti scelsero come luogo di creazione e ispirazione, realizzando le opere dal 1948 al 2016. L’iniziativa è a cura del Comune di Monchiero e di Musei Peluzzi Bonichi (www.museipeluzzibonichi.it).

 

Le sezioni della mostra

La mostra è suddivisa in cinque sezioni, delle quali la prima (biografica) e l’ultima (sulle vanitas dei violini) si saldano secondo una traiettoria circolare, in una sintesi storica, poetica ed estetica che va dalle opere dei primordi e fino all’ultimo ciclo di dipinti, che hanno ritratto figure, paesaggi e nature morte.

Prima sezione: Il ragazzo delle more di Cairo.

Fa il punto su chi è stato Peluzzi, tratteggiando la sua biografia di artista e di uomo a tutto tondo, istrionico e affabulatore, riflessivo e appartato, attraverso le parole di chi lo ha conosciuto e mediante alcuni significativi autoritratti. In apertura di sezione, un inedito studio di nudo maschile del 1912, realizzato durante l’apprendistato all’Accademia Albertina di Torino, si accompagna a un dipinto del suo primo maestro, il cairese bohémienne Carlo Leone Gallo.

Seconda sezione: Fondigli umani e umana verità. La figura umana (ritratto, figura intera, gruppo) emerge fin dall’apprendistato accademico, affrontata con un realismo che sfiora un’evocazione intima della fragilità umana. Le figure sono state il soggetto anche di grandi cicli ad affresco di sapore novecentista, di cui in mostra si documentano le fasi preparatorie con bozzetti e disegni. Inoltre, l’ironia straniante con cui sono ritratti personaggi apparentemente normali, che sembrano posare per una foto ritratto e che indossano una maschera, quella per le feste di carnevale o quella per tutti i giorni, come attestano i dipinti Maschere di paese (esposto alla Biennale di Venezia del 1930) e Le sorelle Triaca.

Terza sezione: Angoli misteriosi del vivere. Il tema del paesaggio coglie i problemi di indagine sulla impalpabilità di una pittura divisionista di derivazione francese, con cui Peluzzi si è confrontato: gli spessori materici che ritraggono angoli del Piemonte e della Liguria, memori di una pittura paesaggistica di fine Ottocento; il frantumarsi del colore in una miriade di striature luminose, riflessi delle luci del divisionismo settentrionale; le influenze della linea liberty in alcuni disegni a carboncino. Il paesaggio, tra i vari generi pittorici, è quello che meno si lascia sfiorare dalla retorica novecentista, mantenendo un respiro personale e di relazione spirituale con i luoghi raffigurati.

Quarta sezione: Le apparenze dimesse del reale. La natura morta vale in filigrana per distillare gli umori della pittura da camera che si semplifica nell’impaginato fino a rendersi sottile come un foglio di carta illusorio. Il processo mentale di rarefazione e distillazione visiva della natura in posa diviene il canale attraverso il quale giungere alle nature morte con i violini del periodo conclusivo.

Quinta sezione: Atmosfere di memorie e le recondite armonie. L’ultima sezione intende raccogliere le vanitas dei violini, introdotte dal ritratto Mio padre liutaio, quadro dipinto nel 1928, in cui le fattezze paterne hanno una monumentalità da profeta biblico, appassionato di pittura e scultura, di filosofia e di mitologia, incline a plasmare i nomi dei suoi nove figli con la costellazione dei suoi riferimenti filosofici: Euro, Aglaia, Arione, Temi, Alceo, Argo, Etra, Tisbe ed Eso (divinità celtica della foresta di cui parlano Cesare, Lucano e Lattanzio).

Le opere sono prestate da: eredi di Eso Peluzzi, Azienda Pubblica di Servizi alla Persona Opere Sociali Nostra Signora di Misericordia di Savona, Comune di Cairo Montenotte, Comune di Monchiero, Cassa di Risparmio di Bra, collezionisti privati.

 

Eso Peluzzi

Eso Peluzzi (Cairo Montenotte – Sv, 1894; Monchiero – Cn, 1985) è figlio di Giuseppe, liutaio, e di Placidia Rodino, fotografa ritrattista. Nel 1911 entra all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, allievo di Paolo Gaidano, Cesare Ferro e Giacomo Grosso e ottiene nel 1913 il primo premio per uno studio di nudo. Ritornato dalla guerra, nel 1919 si stabilisce nella frazione Santuario di Savona, dove rimane per trent’anni. Nel 1920 esordisce con una collettiva alla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, ma già nel 1924 tiene a Milano la sua prima personale presso la Galleria Bottega di Poesia. A partire dagli anni Venti, soggiorna spesso a Como, Assisi, Roma e Parigi. Dal 1926 al 1948 partecipa alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma, alle mostre italiane di Baltimora, Belgrado, Amburgo, Vienna, Lipsia, Budapest, Parigi, ottenendo numerosi riconoscimenti: nel 1935 il premio alla II° Quadriennale di Roma; nel 1939 il Premio Sanremo per il ritratto. Alla sua abilità pittorica, affianca una grande padronanza nella tecnica dell’affresco, in particolare, tra il 1936 e il 1938 lavora alle pareti della Sala consiliare del Comune di Savona. Nel 1948 si trasferisce a Monchiero, nelle Langhe, attorniato dalla stima di amici e intellettuali come gli editori Giulio Einaudi e Livio Garzanti, gli scrittori Guido Ceronetti e Italo Calvino, i critici Luigi Carluccio e Mario De Micheli. Nel 1963 è nominato Accademico di San Luca e riceve la cittadinanza onoraria dai Comuni di Montechiaro d’Acqui (1966) di Monchiero (1967), Savona (1971) e Torino (1979).

Numerose sono le esposizioni personali organizzate fino ad oggi nelle principali città italiane. Nel 2008 l’Azienda Pubblica di Servizi alla Persona Opere Sociali Nostra Signora di Misericordia di Savona ha aperto un museo permanente consacrato all’artista.

 

FONDAZIONE BOTTARI LATTES

La Fondazione Bottari Lattes è nata nel 2009 a Monforte d’Alba (Cn) e non ha scopo di lucro. Ha come finalità la promozione della cultura e dell’arte e l’ampliamento della conoscenza della figura di Mario Lattes. Tra le principali attività: mostre di arte e fotografia, il Premio letterario internazionale Bottari Lattes Grinzane, il progetto per l’infanzia Vivolibro, convegni, spettacoli e concerti di musica da camera. Nel 2013 ha aperto l’attività espositiva del nuovo Spazio Don Chisciotte a Torino, voluto da Caterina Bottari Lattes. Nel 2015 ha inaugurato la Biblioteca-Pinacoteca “Mario Lattes”. Il presidente della Fondazione Bottari Lattes è Adolfo Ivaldi.

Scarica la borchure: Brochure Eso Peluzzi_lr

TESTO DI IVANA MULATERO SU ESO PELUZZI

Eso Peluzzi, il pittore delle more di Cairo

Figure, luoghi e cose in un respiro di infinito nei dipinti dal 1912 al 1983

 Ivana Mulatero

 

“…i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano…L’ultima cosa a cui si arriva è la semplicità…”.  Leopardi, Zibaldone, 1817-1832

 

 Anima solitaria e affabulatoria, Eso Peluzzi ha sperimentato da bambino, con la faccia ancora sporca di more, la vicinanza disorientante e la rinuncia discreta al turbinoso evolversi della vita, quando il padre liutaio dalla barba biblica lo rimandò a restituire un’elemosina cammuffata da regalo, ricevuta da un notabile cairese.

“Pittore delle solitudini/arcaico/dei poveri/irregolare/fuori e dentro il Novecento/montanaro e marinaro/cronista e cantore”, alcune tra le molte definizioni della critica al suo operato non esauriscono la lettura di un caso complesso sul quale vale con evidenza la definizione programmatica di “pittore delle cose semplici che fanno grande il mondo” da egli stesso suggerita.

Tra la metà degli anni Venti e la fine dei Trenta, la figura di Peluzzi è perfettamente inserita nell’ambito della cultura artistica nazionale. Il debutto alla galleria Bottega di Poesia di Milano nel 1924, con il viatico critico di Raffaello Giolli, lo favorisce nelle trame dei pittori del “Novecento italiano”, lo segnala all’artista più riconosciuto del momento, Carlo Carrà, e ne consolida l’amicizia con lo scultore Arturo Martini. Un’ascesa artistica e sociale costellata dagli inviti alle Biennali, a Novecento del 1929, alle Quadriennali romane, Sindacali e mostre all’estero, dal corteggiamento serrato dei futuristi della seconda ondata e dall’incalzante inseguimento del mercante/gallerista/ Pietro Maria Bardi, “primo incitatore e sostenitore dei giovani”.

Nel seguire l’attività di Peluzzi, si ritrova la sua personale del gennaio 1931 alla Sala d’Arte Guglielmi di Torino che aveva accolto, l’anno prima, la quarta e ultima esposizione dei Sei (tra questi, Gigi Chessa è il lontano compagno di pitture en plein air nelle periferie torinesi ai tempi dell’accademia) e, nei soggiorni comaschi, l’incontro con i primi committenti e futuri collezionisti. In un contesto di tali collegamenti e ampiezza di relazioni, le scelte compiute dall’artista si radicano in una confluenza tra soluzioni formali, ipotetici strumenti e tecniche espressive che appartengono sia alla tradizione e sia alla contemporaneità – la querelle tra classicisti e modernisti – in sintonia con le atmosfere di ricerca che hanno caratterizzato la storia dell’arte italiana del Novecento. La sua pittura, da una primissima fase segnata da striature luminose, riflessi delle luci del divisionismo settentrionale in Canneto (1921) poi coagulate negli spessori materici che ritraggono angoli del Piemonte e della Liguria, come attestano le tavolette e i cartoni Colle del Gigante (1923) e Terrazzo, Lanzo d’Intelvi (1924), perviene in seguito a un sensibilissimo segno a pastello nell’Autoritratto a Montechiaro (1924), come premessa costruttiva e direttiva delle vibrazioni di luce e di colore di ascedenza secessionistica e bistolfiana. A partire dalla Biennale del 1930 in Peluzzi si radica un modo di affrontare la pittura che rimarrà una delle sue costanti: i paesaggi, i ritratti, le nature morte sono “pretesti a servizio di uno stato d’animo che contempla gli oggetti religiosamente e cerca, senza tuttavia arrivare ad una vera astrazione, di renderne lo spirito” (Fillia, 1931). Il paesaggio è il genere pittorico che meno si lascia irretire dalla retorica novecentista, rinforzato da elementi cézanniani Montechiaro d’Acqui (1942), mantiene un respiro personale e di relazione empatica con i luoghi raffigurati che sono il frutto di una decantazione dei valori più segreti dell’esperienza abituale del mondo. Peluzzi non si è accontentato di scorgere un bel paesaggio dalla visuale di un finestrino del treno ma è sceso alla fermata e ha respirato il genius loci dell’antico borgo di Monchiero Alto – intravisto ad intermittenza nelle formative peregrinazioni – eleggendo l’Oratorio dei Disciplinanti, noto come la “Cesa di Batû”, ad angolo misterioso del vivere. Seguendo le rive impossibili della pittura, che non offre approdi se non inventandoseli da soli, dalla costa ai colli di Langa, dal Letimbro al Tanaro, l’arte di Peluzzi ha ricercato una vena poetica e una recondita armonia dell’essere. I sommessi sussurri dei colori dei frutti, dei fili d’erba, delle vigne, degli orti e delle apparenze dimesse del reale si percepiscono nella varietà delle terre bruciate di Siena e rosse di Pozzuoli, nei grigi cenerini trasparenti, nei verdi smeraldo e cobalto, nei bruni che trascolorano nel violetto, dai quali filtra il respiro arioso della natura.

La figura umana, anch’essa paziente e ammiccante, a volte giganteggia nei cicli ad affresco realizzati dagli anni Trenta ai Settanta con scene sacre o a carattere sociale. I ritratti, tuttavia, sfuggono all’ideale classico della bellezza sostenuto dal movimento sarfattiano, preferendo far emergere un certo malessere di stampo espressionista. Dallo studio La minestra dei poveri (1927) alle Maschere di paese (1930) fino a Le sorelle Triaca (1944) la dimensione esistenziale è resa con un’emozionante verità sospesa tra la difficoltà del vivere e la farsa da commedia umana (la secchezza delle linee di contorno delle sorelle Triaca è consanguinea alle forme scabre modellate da Martini).

Il palpito nei soggetti di varia umanità ritratti da Peluzzi (soprattutto coloro che sono trascurati e dimenticati, i “fondigli umani” così definiti da Farfa, un altro futurista) si percepisce tra le pieghe degli abiti a buon mercato. Ma non è, del resto, il respiro calibrato, la sostanza di cui si alimenta primariamente lo strumento musicale che produce il suono? Metabolizzato nella cassa armonica o di risonanza, replica di mirabile artificio dell’umanissima gabbia toracica (una prozia soprano fucilata dagli austriaci nelle dieci giornate di Brescia), è capace di contenere e sublimare il movimento della vita, il moto perpetuo di espirazione e di inspirazione. Ecco che, allora, anche le ultime nature morte dalle cifrate e rarefatte casse mnemoniche con i brandelli di violini e viole paterni hanno una loro coerenza di epilogo, immagine di un respiro che ha cercato di tradursi in motteggio, intonazione, canto e opera – figure, luoghi e cose – in un meditato bilanciamento delle varie componenti linguistiche del quadro.

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